Capitolo 17 – paura e dolore
– Ehi, là dentro! – Miagolò insistentemente Nerogatto. – Sono tre giorni ormai che te ne stai rintanato come una patata. Credevo di aver incontrato un compagno d’avventure, io, mica un tubero buono solo a mettere radici. Mi hai abituato ad un altro tenore di vita, adesso mica mi puoi piantare così. Senza una spiegazione che sia una, per di più. Ehi! Coniglio!
Ma anche stavolta il felino non ottenne risposta alcuna.
Coniglio-che-Balza non aveva dato cenno di essersi ripreso dalla loro incredibile vicenda.
Non aveva parlato per tutto il tragitto di ritorno e neanche una volta raggiunta la sua confortevole tana.
Da lì, poi, non era più uscito.
Nerogatto aveva provato a chiamarlo più volte, ovviamente. Si era anche infilato nel buio cunicolo in cui l’amico si era rifugiato, ma senza fortuna.
Coniglio-che-Balza si era chiuso in ostinato quanto inspiegabile silenzio, tanto che, a questo punto, il felino stava iniziando a preoccuparsi.
Dal canto suo, il nostro piccolo eroe stava combattendo una personalissima battaglia per non venir annichilito da un’angoscia vecchia di anni.
Un’angoscia che si era celata nel più profondo del suo essere, covando indisturbata e facendo germogliare in lui quella Paura e quel Dolore che da sempre gli avevano dato tormento.
Almeno da quanto aveva potuto ricordare fino ad allora.
Perché la visione dell’orrido mostro aveva risvegliato le memorie e gli incubi rimossi e sopiti.
Coniglio-che-Balza non era nato maledetto da Paura e Dolore, come aveva sempre creduto.
Era stato maledetto quando, ancora cucciolo, aveva assistito alla morte dei genitori dovuta alle fauci di uno di quei terribili rettili. Questa era la verità.
Questo andava sognando di continuo nel buio del suo ricovero. Questa era l’immagine che lo stava tormentando senza sosta.
I suoi genitori ed alcuni Grandi Spiriti della tribù, avevano deciso di formare un’altra colonia distante da Prato Declivio, giusto per ampliare il territorio dei conigli e dar modo alla propria stirpe di proliferare al meglio.
Non tutti gli anziani erano stati d’accordo su tale scelta, essendo Tabù allontanarsi dalla tana, ma poco avevano potuto di fronte alla risolutezza di quel gruppo di valorosi.
Alla fine avevano dovuto dare il proprio consenso e quegli impavidi se ne erano andati nottetempo, dopo una grande festa in loro onore. L’ultima festa cui avrebbero potuto prendere parte.
Si erano infatti imbattuti in un Grande Mostro, solo pochi giorni dopo. Una creatura orribile, molto simile a quella vista nella radura, abbattuta dal misterioso Essere.
Coniglio-che-Balza era ancora molto piccolo e era stato grazie al sacrificio della madre, ultima sopravvissuta all’attacco dell’insaziabile nemico, che aveva potuto avere salva la Vita.
Saltalesta era il suo nome e non a caso se lo era meritato.
Era fuggita lontano dal lui per distogliere l’attenzione dell’implacabile mostro e facendolo così correre a lungo e sempre più lontano dal luogo dello scontro
Aveva corso abbastanza per salvare la Vita a suo figlio ma non tanto da salvare la propria, la rapida, coraggiosa, Saltalesta.
Dietro di lei era rimasto il suo piccolo, profondamente scioccato dalla carneficina cui aveva assistito: tutti i compagni dilaniati dalla furia vorace del Mostro.
Solo adesso Coniglio-che-Balza la ricordava ed il dolore per la sua morte era pari a quello d’averla dimenticata.
Ancora cucciolo, il nostro povero amico, era rimasto di sasso sulla scena del massacro, incapace di riattivare le proprie facoltà intellettive, attanagliato fin nel profondo da un terrore fin allora ignoto e sicuramente inaspettato.
Fu l’istinto a ricondurlo, quasi in trance, a Prato Declivio.
Fu l’anziano Baffotorto, quel giorno di guardia, a trovarlo. Con sgomento aveva annusato sul cucciolo l’odore di sangue e morte e aveva ben capito cosa fosse accaduto.
Ogni domanda però, era caduta nel Vuoto, giacchè il piccolo traumatizzato aveva cancellato ogni cosa dalla sua mente.
Troppo pesante per le sue spalle tutto l’orrore cui aveva assistito!
Baffotorto aveva allora deciso di ripulirlo ben bene con qualche odorosa pianta e di non far menzione dell’accaduto con gli altri suoi pari, ad eccezione degli anziani, ovviamente.
Avrebbero intensificato le guardie con qualche scusa ma non potevano far serpeggiare il panico nella comunità. Avrebbero così rischiato di far peggio che meglio essendo la Paura una pessima consigliera.
Tenuta riunione segreta, quindi, gli anziani avevano deciso di avvolgere nel mistero il ritrovamento del cucciolo, giacché il mistero poteva assumere un’infinità di interpretazioni di comodo.
Quella che ebbe più successo, fin da essere considerata la verità, fu involontariamente offerta da Coniglio-che-Balza stesso. L’intollerabile terrore a cui era stato sottoposto, mai digerito, aveva fatto germogliare in lui quel perenne stato di Paura per cui era divenuto famoso e siccome le malelingue sono sempre più di quante ce ne sia bisogno, venne stabilito che, essendo un fifone, si era perduto fuggendo da qualche sua fantasia.
Come Natura vuole le malelingue hanno come caratteristica comune la pochezza mentale, quindi nessuno di quelli che avevano avanzato e sostenuto tale ipotesi si domandò mai perché del gruppo di valorosi partiti a fondare una nuova stirpe, non si fossero avute più notizie.
Se poi all’ignoranza si unisce il Tempo che passa, ogni avvenimento è suscettibile di dissolversi dal ricordo generale, lasciando solo qualche latente impressione o fortificandone qualcuna già esistente, tipo il Tabù che proibiva a chiunque di lasciare Prato Declivio.
Soltanto il nono giorno Coniglio-che-Balza uscì dal suo covo. “Probabilmente vinto da fame e sete”, avrebbe pensato Nerogatto se fosse stato presente.
Il suo manto era sporco e scarruffato, le orecchie mosce, il naso quasi impastato, gli occhi inespressivi, fissi su qualcosa che solo lui poteva vedere.
Stremato nel corpo e nello spirito.
Nessuno fu testimone di tale avvenimento e nessun animo fu quindi turbato dalla sua apparizione.
Aveva ingaggiato una lotta spaventosa, rintanato tutti quei giorni. Una lotta che lo aveva visto più volte sull’orlo della definitiva sconfitta.
Fu solo il ricordo di alcune parole del vecchio amico Hu-Luk a farlo riemergere dalla disperazione che lo aveva avvinto.
Quando andava lamentandosi col saggio gufo della sua condizione di maledetto, solennemente il pennuto lo esortava ricordandogli che solo a Morte non v’era rimedio.
Per tutto il resto c’era sempre qualcosa che si potesse fare.
Fu l’immagine dei suoi benevoli grandi occhi gialli che si fece via via largo nel tormentato immaginario di Coniglio-che-Balza, offrendogli uno spiraglio al grigiore che l’opprimeva.
“C’era sempre qualcosa che si potesse fare”.
Voleva dunque abbandonarsi alla disperazione e concludere così la sua vita, preda di Paura e Dolore o voleva far sì che il sacrificio di sua madre non fosse stato vano?
Poteva, voleva risollevarsi per divenire quel Grande Spirito che i suoi genitori si aspettavano sarebbe diventato o voleva rimanere incatenato a memorie, per quanto terribili, di eventi oramai passati?
Aveva compiuto un viaggio che nessuno tra i suoi pari aveva osato prima.
Aveva oltrepassato anche quello che i suoi stessi valorosi genitori si erano prefissi.
Aveva superato sfide mortali, incontrato nuovi amici e scoperto un Essere che poteva liberare tutte le stirpi dal giogo dei Grandi Mostri.
No.
Non poteva, non voleva cedere adesso.
Sarebbe nuovamente uscito alla luce del Sole, avrebbe nuovamente respirato Aria fresca, avrebbe bevuto e si sarebbe nutrito.
Aveva ancora molte avventure da vivere.
E con somma sorpresa si ritrovò a pensare che aveva ancora una Volpe da trovare.